Adriana Giorgis di Enrico Perotto
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Guido Pecci di Enrico Perotto
Ho incontrato per la prima volta il nome di Guido Pecci l’estate scorsa sulle pagine della rivista «Tracce. Cahiers d’art». Mi ha colpito il contenuto dell’articolo di Loredana Rea, che ha saputo tracciare un vero e proprio identikit delle scelte culturali e degli indirizzi di ricerca di questo giovane artista animato «dall’ansia famelica di esperire il mondo attraverso la pittura» (1). Le opere e le tematiche presentate da Guido mi sono apparse seducenti, di quelle che non lasciano indifferenti, né sul piano dell’impatto visivo né su quello dei significati interiori. Da qui l’interesse e la conseguente decisione di invitarlo ad esporre negli spazi della Fondazione Peano. A essere chiamati in causa nel lavoro di Pecci sono la mente e l’inconscio del loro autore, con immediatezza espressiva costante. Disegni, dipinti e terrecotte sono attraversati da uno spirito visionario, che si ritrova anche nelle illuminanti scritture poetiche dell’artista, in cui si condensano i risvolti psicologici delle vicende umane figurate con segni e colori. Le immagini costruite appaiono come pagine slabbrate di un diario intimo, riempite di forme evanescenti, erose da graffi, attraversate da sgocciolamenti, macchie e schizzi di colore, segnate da ombre profonde, da tonalità timbriche cupe, se non proprio drammatiche, dal sapore di antichi graffiti romani o pompeiani, prim’ancora che di graffiti contemporanei metropolitani, in cui si incunea o trapela un misterioso impasto di eros sublimato e di narrazione da pulp fiction, impaginato in sequenze pittoriche di forte impatto emotivo, dense di richiami alla grafica fumettistica e alla cultura delle immagini popolari, non lontane da quelle combinate in «linguaggio magico» da Gastone Novelli o dalla scrittura in movimento che diventa pittura di Cy Twombly. L’uso delle parole scritte non esalta soltanto la loro qualità visiva di grafemi scritturali autonomi, rappresentati come puri segni pittorici, lasciati apparire al di sotto o sovrapposti al di sopra delle sagome figurali allusive e dei colori impuri, screziati, che mettono disagio, ma suscita nell’osservatore anche delle vaghe sensazioni di sonorità linguistiche, colte all’aperto per strada, quasi un flusso continuo di voci babeliche.
L’impressione complessiva è quella di stare di fronte a rappresentazioni sceniche tratte dai canovacci di un “teatro della vita”, crudele e irriverente, come quello evocato nei versi satirici di Giovenale (2), o in quelli di Pier Paolo Pasolini, sorprendentemente vicini al mondo creativo di Pecci (3). Un parallelo particolare si può inoltre indicare tra le visioni tragiche della realtà presenti in Charles Baudelaire e l’intenzione, che diresti istintiva in Pecci, di accogliere nelle sue realizzazioni quelle parvenze di immagini ordinarie, estrapolate da contesti di vita urbana popolaresca, ai limiti del grottesco e della metafora visiva fine a se stessa. In tal senso, allora, si può affermare che Pecci è artista fondamentalmente “realista”, così come «nel XIX secolo il termine realismo indicava l’efficace descrizione di cose brutte, meschine o orribili prese dalla realtà esteriore» (4).
A un livello più generale di lettura dei contenuti, mi sembra del tutto appropriato chiedere all’artista, con le parole di Elio Pagliarani: «Ma le scritture e le figure dipinte / ti sembrano in rapporto col tempo / presente e passato, e non col futuro? / O vuoi intendere invece / nel senso che tutte queste figure / sono rivolte in attesa al futuro? E che noi, / per tutta la vita, siamo sempre pieni / di attesa e di speranza? Ma vi sono ancora / quelle immagini dipinte. E c’è chi arriva a vedere / oro» (5), vale a dire, forse, l’avverarsi delle aspettative umane più nascoste e ritenute irrealizzabili.
Pecci elabora una forma di psicoanalisi traslata del proprio io (corrispondente, in ultima analisi, anche a quello di gran parte di ognuno di noi) nei suoi trasalimenti amorosi per Giulia (6). Egli ha immaginato, in precedenza, di reinventare il domicilio coatto di lei, pensandolo in apparenza di sculture-case dal tetto scoperchiato, che riecheggiano l’architettura classicheggiante policroma. In esse vi dimora Eros, che le ha fatalmente trasformate in luoghi stregati, teatro di intemperanti accadimenti amorosi e al contempo oggetto di attenzioni voyeristiche. È indubbio che Guido abbia una natura di «innamorato eccessivo» (7). Pecci è figura barthesiana dell’innamorato come artista, «e il suo mondo è effettivamente un mondo alla rovescia, poiché ogni immagine vi ha la sua propria fine (niente al di là dell’immagine)» (8). Il piacere dei sensi, la forza terribile della sessualità primordiale, il fremito panico sono comunicati principalmente da nudi sensuosi figurati come ombre disinibite di carni bramanti d’ambo i sessi, modellate con segni rapidi e sfumati di carboncino, che danno vigore agli accenni di masse plastiche atletiche e conturbanti.
Lo stato esistenziale di quelle altre figure virili dipinte da Pecci, così impudicamente smembrate e consumate dalla febbre animalesca dell’eccitazione, si trova avvolto dal nero della notte, che ne confonde i contorni, rendendoli indistinti e incompleti (9), una notte che però è squarciata da lumi improvvisi che esaltano la solitudine inquieta e desiderante di quei nudi corpi lascivi. Si tratta di una condizione di oscurità, più che di tenebra notturna, in cui «il desiderio continua a vibrare (l’oscurità è transluminosa)», quando non si può che stare lì, seduti «semplicemente e tranquillamente nell’interno nero dell’amore» (10)
Giulia e Guido si scambiano le loro reciproche identità: l’una è il rispecchiamento dell’altro e viceversa. L’artista non fa che parlare di sé nelle sue opere per interposta persona. Pecci, cioè, esplora il fenomeno del turbamento operato dalla calda naturalezza dei sensi sugli strati profondi del nostro essere psico-fisico, sporgendosi sull’abisso delle pulsioni erotiche vagheggiate con gli occhi affascinati delle creature archetipiche del mito greco e discendendo nella caverna dei misteri del sentimento e dell’immaginazione, che sono al centro dei rapporti umani. Risuona la musica della siringa di Pan, l’incitamento interiore a lasciarsi guidare dalla natura (11).
Enrico Perotto
(1) L. Rea, La casa di Giulia. Il luogo dei desideri, in «Tracce. Cahiers d’art», n. 5, estate 2005, pp. 32-33.
(2) «La povertà di Roma è morta / e il Delitto si è scatenato, / le Libidini più sinistre le abbiamo, / Sibari, Rodi, Mileto, e Taranto / l’orgiastica, la trincona sfrenata, / sui nostri colli sono volate. / Lo schifoso Denaro è stato: ha introdotto costumi strani / e sotto l’urto della Ricchezza / più sfrollata, sfarzosa e oscena / tutto il passato si è frantumato» (Giovenale, Satire, Libro II, 6, vv. 294-300, in Antologia della poesia latina, a cura di D. Puliga, Introduzione di M. Bettini, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2004, p. 595).
(3) «E come odora, nel caldo così pieno / da esser esso stesso spazio, / il muraglione, qui sotto: / da ponte Sublicio fino sul Gianicolo / il fetore si mescola all’ebbrezza / della vita che non è vita. Impuri segni che di qui sono passati / vecchi ubriachi di Ponte, antiche / prostitute, frotte di sbandata / ragazzaglia: impure traccie / umane che, umanamente infette, / son lì a dire, violente e quiete, / questi uomini, i loro bassi diletti / innocenti, le loro misere mete» (P. P. Pasolini, Dove vai per le strade di Roma, in City Lights Poets Anthology. I poeti della Beat Generation (1995), a cura di L. Ferlinghetti, tr. it. di M. Bocchiola, Milano, Mondadori, 2006, p. 274).
(4) E. Auerbach, “Les Fleurs du Mal” e il sublime, in Ch. Baudelaire, I fiori del male. I relitti. Supplemento ai Fiori del male (1° ed. 1961), a cura di L. de Nardis, saggio introduttivo di E. Auerbach, tr. dal francese di L. de Nardis, Milano, Feltrinelli, 1978, p. XIX. Si osservino, tra l’altro, i cosiddetti Box, «piccoli “teatrini” a mo’ di mensole a parete, con piccole figure in terracotta», come li definisce l’artista, e si confrontino con questa immagine poetica tratta dall’incipit di Donne dannate: «Sdraiate sulla sabbia, come armento / meditabondo, esse rivolgon l’occhio / al limite dei mari, e le accostate / mani, e i piedi che cercano toccarsi, hanno dolci languori e amari brividi. / Cuori vaghi di lunghe confidenze, / le une, in fondo a boschetti dove mormorano / ruscelli, van l’amore sillabando / delle timide infanzie, e il legno verde / d’alberi nuovi incidono» (ibid., p. 219).
(5) E. Pagliarani, Esercizi platonici II (1985), in Tutte le poesie (1946-2005), a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, p. 232.
(6) Sulla figura ammaliante dell’unica figlia ripudiata dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto, nata nel 39 a.C. dal suo matrimonio con Scribonia, sposa di Marcello, Agrippa e Tiberio, sensibile e gentile d’animo, accusata di adulterio, ma forse colpevole soltanto di aver amato seguendo sempre il suo cuore e andando contro il potere e le consuetudini del suo tempo, vedi A.Tavassi La Greca, La pedina di vetro. Biografia di Giulia figlia dell’imperatore Augusto (1° ed. 1998), Roma, Di Rienzo, 2001 e Id. Voce di Giulia. In scena con la figlia dell’imperatore Augusto, Roma, Di Rienzo, 2003.
(7) Cfr. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), tr. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2001, p. 98. Il caso è un po’ come quello dell’eroe della Gradiva, ovvero di quel giovane archeologo tedesco, Norbert Hanold, analizzato da Freud nel suo saggio intitolato Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen (1906), che si lascia affascinare dall’immagine aggraziata di una giovane ragazza nell’atto di camminare, scolpita su un bassorilievo scoperto da Hanold in un museo di antichità di Roma. In entrambi i casi, le fantasie oniriche ossessive generano immagini coinvolgenti, dotate di una calda evidenza del desiderio amoroso.
(8) R. Barthes, Frammenti, cit., p. 106.
(9) «Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec. (28. Sett. 1821.)». Cfr. G. Leopardi, Zibaldone, Premessa di E. Trevi, Indici filologici di M. Dondero, Indice tematico e analitico di M. Dondero e W. Marra, Edizione integrale diretta da L. Felici, Roma, Newton Compton, 1997, p. 392.
(10) R. Barthes, Frammenti, cit., p. 142.
(11) A sentire, insomma, nel corpo i richiami delle ninfe: «Le nostre riflessioni sulla nostra impersonale, oscena, laida sessualità, e il godimento che ne traiamo, sono echi in noi della ninfa. La ninfa ancora ci fa sentire scossi e lascivi». Cfr. J. Hillman, Saggio su Pan (1972, 1° ed. it. 1977), tr. it. di A. Giuliani, Milano, Adelphi, 2003, p. 113.
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Adriana Giorgis di Enrico Perotto
APPARENZA E MISTERO DELLA VITA VEGETALE
Prati, boschi, giardini d’autore, esotici vivai, parchi cittadini, ovunque vi sia la meraviglia delle forme naturali, l’oscuro e al contempo “numinoso” intrico di foglie, rami, infiorescenze e turgori organici, resi con un’esplosione dionisiaca di segni concitati e colori violenti, o s’imponga un simbolico sistema di rappresentazione naturalistica, attraverso il succedersi di tre stagioni, con intrecci astratti di linee nere rafforzate da macchie allusive di colori essenziali, oppure per via di libere schematizzazioni di un’arborescenza orientale, quello è il mondo panteistico di Adriana Giorgis, l’intima sfera delle sensazioni gioiose, giocose e passionali dell’artista, dove tutto è illuminato di «luce fiabesca», quella stessa che Claude Monet ricercava negli splendori dei giardini di Bordighera e di Giverny, applicandosi «su di un massimo di apparenze, in stretta correlazione con realtà conosciute» (1). Se un qualsiasi testo poetico giapponese mira a valorizzare la sensibilità per le cose o l’essere in intima armonia con loro, Adriana, a sua volta, sa rigenerare il concetto di unità tra individuo e natura, realizzando nelle sue opere riguardanti gli ambienti naturali una vera e propria sintesi tra la dimensione spirituale e quella materiale. Sia nella serie dei fantasiosi sketch pittografici a tema erbaceo, appartenente agli anni 1982-1984, sia nelle recenti fotografie all’infrarosso bianco/nero, l’artista non si limita a reinventare il minuto particolare botanico, ma sorprende se stessa, ancor prima che lo sguardo dell’osservatore, con la rivelazione di forme impreviste e presenze occulte – come quei due piccoli punti bianchi, per esempio, che si vedono in I boschi di Alice, lo sguardo, del 1984, spuntati lì dove sono “per incanto” (2). Quello su cui Adriana Giorgis intende sostanzialmente puntare con Au Jardin, la sua antologica ospitata alla Fondazione Peano, è quindi un possibile svelamento dell’imponderabile, un’apparizione fortuita di un sortilegio, un’apertura di improvvisi spiragli sul mondo delle inquietudini e dei desideri riposti nel profondo dell’animo umano, camminando per i sentieri misteriosi della vita vegetale. «Chiedi a un mandorlo a marzo», esorta Giuseppe Conte, «al rosa titubante del pescheto. / Chiedi a una nuvola dell’alba. / Chiedi a un torrente che irrompe nel greto. / Chiedilo a tutti i fichi degli orti / quando i rami contorti e spogli / cominciano a formicolare / di germogli. / Chiedilo a loro. / Saprai cos’è l’impazienza / che ti attanaglia e ti sgomina / quando tu desideri, corpo. / Saprai la tua innocenza e la tua forza. / Saprai dell’amore più verità / che leggendo tutti i libri scritti / dall’inizio dei tempi. / Non fidarti dei filosofi / né di Platone né di Eraclito / non interrogare i profeti / i sapienti, i sacerdoti / su cosa è la tua brama, / non saprebbero dirtelo. / Chiedi a un mandorlo. / Guarda un mandorlo» (3).
Enrico Perotto
(1) «Non ho fatto altro che osservare ciò che l’universo mi ha mostrato, per renderne testimonianza col mio pennello». Cfr. M. De Micheli, Carte d’artisti, vol. 1: Dal Neoclassicismo al Simbolismo. Lettere, confessioni, interviste, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 198.
(2) O come nel caso di una fotografia del 1995, raffigurante uno scorcio della Discesa Bellavista a Cuneo, in cui si è scoperto, in fase di stampa, un effetto atmosferico casuale di sapore eterico, denso di fascino e mistero auratico. Cfr. Uno sguardo nascosto. La Cuneo segreta di Adriana Giorgis, Cuneo, L’Arciere, 1998.
(3) G. Conte, «Chiedi a un mandorlo», in Ferite e rifioriture, Milano, Mondadori, 2006, pp. 61-62.